Logo La via del Romanino
Particolare della "Salita al Cielo"
Particolare della "Salita al Cielo", sulla parte destra della terza campata di S.Maria della Neve a Pisogne (BS).

Testo

Quando nel primo quarantennio del Cinquecento Romanino percorre le strade sebine e camune per lasciarvi alcune altissime testimonianze della sua arte, queste contrade, per quanto periferiche, sono sufficientemente ricche e culturalmente mature da pensare di affidare ad un artista del suo rango compiti di notevole impegno, quali l'affrescatura di interi cicli pittorici, secondo i modi della più aggiornata arte contemporanea. Non va scordato che le più alte espressioni artistiche valligiane nell'ultimo quarto del Quattrocento si manifestavano (per quanto pregevolmente) facendo ancora ricorso a schemi pittorici del secolo precedente. Un segno d'apertura, dunque, da parte dei valligiani, che oltre a Romanino chiamano ad operare nella loro terra pittori come Callisto Piazza ed altri.
Romanino giunge prima a Tavernola, ancora giovane, appena tornato da Venezia (meta obbligata per la formazione degli artisti bresciani e bergamaschi), probabilmente nel 1512, e vi dipinge la "Madonna in trono con i Santi e i committenti", nella chiesa di S. Pietro. Poi si allontana da queste zone per tornarvi nel 1533, a Pisogne, più maturo e pittoricamente spavaldo. Vi dipinge un importante ciclo di affreschi, reduce dal lavoro eseguito al castello del Buon Consiglio di Trento. Passa successivamente ad operare a Breno e poi a Bienno. Vi sono alcuni scritti che parlano di un dipinto ad olio per S. Giorgio a Lovere, di un affresco raffigurante S.cristoforo a Malonno e di un altro affresco a Vello, dei quali non vi è traccia alcuna.
In quegli anni il pittore era collocato in una posizione intermedia della scala sociale. Alcuni documenti, soprattutto polizze d'estimo, citate da Stefano Fenaroli nel suo Dizionario degli artisti bresciani (1877), tra le quali quelle del 1534 e del 1548, ci danno una visione abbastanza chiara e attendibile della sua situazione economica e sociale. Sappiamo che la sua famiglia era composta da quattro figli, la moglie Paola, due nipoti, un famiglio ed una massara, e che aveva possedimenti ad Urago Mella, precisamente nella contrada "Carretto" e una casa nella contrada Larga, quadra sesta di S. Giovanni a Brescia. Si registrano inoltre alcuni crediti verso Nicolò Orsini conte di Pitigliano, verso il Capitano della Giustizia di Milano e verso "li homini" di Pisogne.
Un divertente aneddoto si è tramandato a proposito del San Cristoforo dipinto a Malonno (ma del quale non vi è più traccia) al quale Romanino aveva dipinto le vesti troppo corte, tanto che la figura venne considerata indecente. Alle lamentele dei valligiani, Romanino rispose che con il denaro datogli per quel lavoro non aveva potuto acquistare panno sufficiente per la veste del Santo. La parcella venne rimpinguata e la veste allungata.
Non è dunque fuori luogo chiedersi perchè un artista come Romanino, di condizione discretamente agiata e lodato dai Vasari per la sue abilità nel disegno e nel dipingere animali e paesaggi, decida di lavorare in una zona tanto lontana da quei rapporti e da quelle personalità della cultura così importanti per gli artisti del periodo, aspetti tenuti ad esempio in gran conto dal contemporaneo e concorrente Alessandro Bonvicino detto il Moretto.
Si possono formulare alcune ipotesi:pensare che Romanino si sposti in provincia perchè vi si offrivano maggiori possibilità economiche e perchè tutto sommato era considerato, a torto o a ragione, un minore dai suoi contemporanei. Ma, visto che questa ipotesi pare smentita dai fatti, occorre piuttosto formulare una seconda ipotesi: che Romanino per sua libera scelta decida di spostare la propria attività verso una zona marginale della provincia. Si può cioè pensare che un artista trasgressivo come lui abbia operato nell'area sebino-camuna in modo così capillare ed intenso perchè in quelle zone il terreno era relativamente sgombro dai paradigmi estetici dettati dalla moda, che altrove portavano la committenza a chiedere raffigurazioni accademicamente auliche, e rappresentava un luogo assai più disponibile ad accogliere la sua pittura forte ed espressiva.
La tecnica a fresco, utilizzata dal Romanino in questa zona, fu molto usata ed apprezzata, dai tempi più antichi almeno fino al Settecento inoltrato. Essa garantisce, se bene impiegata, una lunga conservazione nel tempo; permette inoltre di ricoprire vaste superfici ed infine come scrive Cennino Cennini nel Libro dell' arte di "lavorare in muro che il più dolce o il più vago lavorare che sia".
Lavorare a fresco, oltre ad essere d'uso comune tra gli artisti rinascimentali, costituiva una sorta di metro di misura del virtuosismo pittorico. Scrive infatti il Vasari nelle Vite dei più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani (1550): "a proposito di tutti gl'altri modi che i pittori faccino, il dipingere in muro é più maestrevole e bello, perchè consiste nel fare in un giorno solo quello che nelli altri modi si può in molti ritoccare sopra il lavorato. Era da gli antichi molto usato il fresco, et i vecchi moderni ancora l'hanno poi seguitato".
L'affresco è dunque un modo di dipingere che richiede una notevole destrezza tecnica. In pratica viene steso sopra il muro grezzo, o preventivamente martellinato, un primo strato di intonaco composto da sabbia e calce, detto arriccio, lasciato abbastanza grezzo per favorire la presa del secondo e definitivo intonaco composto da sabbia, calce e polvere di marmo sopra al quale il pittore dipinge con colori che possono essere di cavatura, come tutte le terre, di origine animale o minerale, come rossi ed azzurri. Questi colori vengono disciolti semplicemente in acqua e ciò che li fissa e li fa divenire parte integrante della superficie muraria è una reazione chimica, la carbonatazione: la calce, a contatto con la componente inerte rappresentata da sabbia e polvere di marmo, assorbe l'anidride carbonica presente nell'aria trasformandosi in carbonato di calcio, elemento non più solubile.
Il pittore, ancor prima di giungere alla fase del dipingere vero e proprio, esegue una serie di operazioni. Sull'intonaco sottostante traccia a grandi linee la struttura del dipinto, la cosiddetta sinopia, e qui decide in quante "giornate" organizzare il lavoro. La "giornata" è quella porzione di intonaco fresco sul quale è possibile dipingere appunto nel corso di un solo giorno, finchè l'intonaco preparato al mattino è ancora umido. Quindi passa alla stesura della porzione di intonaco fresco ben lisciato sul quale appoggia poi il "cartone" (disegno preparato in precedenza), e a questo punto può effettuare due tipi di operazioni: il "chiodo" che consiste nel ripassare letteralmente con un chiodo tutto il disegno affinche ne rimanga traccia sull' intonaco fresco, oppure lo "spolvero" che prevede la preliminare bucherellatura del cartone lungo le tracce del disegno affinchè passi attraverso i buchi la polvere scura che il pittore applicherà servendosi di un tampone, lasciando così la traccia del disegno da riempire poi con i colori.
Questa sintetica descrizione della tecnica dell' affresco non dà ovviamente conto delle variazioni che ogni artista apportava, degli accorgimenti cui ricorreva e dei segreti che custodiva per ottenere il risultato desiderato. La tecnica variava a secondo del clima e della materia prima reperibile nelle diverse zone, assecondando inoltre il gusto e le mode.
Se si passa ad analizzare il metodo di lavoro del Romanino si ha spesso conferma del carattere intenso e stravagante che alcuni scrittori gli hanno attribuito.
 Particolare di "Madonna col bambino in trono, santi e donatori" L'affresco di Tavernola Bergamasca, analizzato a luce radente, permette di leggere una dozzina di giornate, più altre cinque per la cornice. Da questo si deduce che Romanino, se pur giovane, aveva già una destrezza di pennello ed una rapidità di esecuzione notevoli: le tre figure di committenti inginocchiati in basso a sinistra del dipinto. ad esempio, sono state eseguite in un'unica giornata. Con grande probabilità dipingere porzioni di tale entità è andato a scapito di qualche colore che, per mancata carbonatazione, non si è conservato fino a noi. Le vesti dei committenti, sia quelli in basso a destra che quelli a sinistra, presentano così una coloritura grigiastra: si tratta di una base composta da colore molto diluito in acqua e calce, sul quale presumibilmente Romanino ha steso altri colori difficilmente individuabili per l' inconsistenza delle tracce ritrovate.
Non vi è inoltre traccia alcuna di cartone, chiodo o spolvero, ma solamente una linea di colore ocra rossa che funge da abbozzo eseguito direttamente sull'intonaco fresco, lo stesso colore rosso che in questo affresco ritroviamo nelle ombreggiature dei visi e delle mani. Altro elemento particolare è appunto la resa della volumetria dei visi e delle mani: le ombreggiature sono stese con un diligente, quasi accademico tratteggio, che dà una risultante pittorica ma che in realtà ha una struttura decisamente grafica, e la stessa cosa si trova nelle tre teste visibili nel coro della chiesa.
Nella chiesa di S. Maria della Neve a Pisogne, un Romanino più maturo nel 1533 esegue, forse su commissione della confraternita dei Disciplini, un'opera complessa e grandiosa. Qui Romanino comincia a dipingere, come ovvio che sia in un' opera di questa natura, dal soffitto ed è presumibile che abbia iniziato dalle vele più vicine all'entrata.
Le tre campiture di vele si differenziano tra loro per stile pittorico. Vi sono raffigurati sibille e profeti, quelli della prima hanno un'esecuzione accademicamente molto pregevole ed anche i cartigli che tengono fra le mani hanno un senso compiuto; nelle volte seguenti le figure vanno via via deformandosi ed assumono una valenza espressionistica nelle torsioni esasperate dei corpi, i cartigli riportano oltre al nome della sibilla o del profeta alcune lettere risultate indecifrabili.
Anche nelle decorazioni di contorno della singola vela la pennellata diviene più veloce e disomogenea. I cieli ritagliati nelle vele conservano solamente poche tracce di azzurro, e qui si può ipotizzare, data la difficoltà oggettiva di far carbonatare i colori di origine minerale, una stesura a secco dell'azzurro (dato peraltro accertato nel caso degli azzurri negli affreschi del castello del Buon Consiglio di Trento, eseguiti l'anno precedente).
Gli intonaci usati per questi affreschi sono stesi spesso grossolanamente e visti a luce radente presentano delle parti rattoppate con un intonaco dalla granulometria più grossa; si trattava probabilmente di un metodo di correzione degli errori. Romanino, infatti, anche qui si distingue per decisione e originalità, non essendovi traccia di cartoni ma solo il solito disegno preparatorio eseguito con il colore rosso e il segno della battitura dei fili, metodo consistente nel tendere uno spago tra due chiodi e quindi farlo battere sporco di colore sull' intonaco fresco così da lasciare come traccia delle linee rette usate per la costruzione delle architetture.
Tornando agli intonaci, essi risultano chiaramente composti da calce, sabbia del locale fiume e pochissima polvere di marmo. L'utilizzo della sabbia del fiume Oglio determina sulla superficie delle microcadute di colore lasciando in evidenza le particelle di origine minerale che le hanno provocate, facilmente individuabili perchè brillano. L'intonaco di Romanino è qui stato steso sopra a degli affreschi precedenti dei quali sono visibili alcuni frammenti.
L'utilizzo dei colori in S. Maria della Neve è piuttosto vario così come varia il colorismo nelle diverse pareti, quasi come se l'artista avesse voluto richiamare per ogni narrazione una tendenza pittorica diversa.
Lo stato di conservazione degli affreschi di Pisogne è tale per cui ciò che risulta per noi oggi visibile è solo una parte di quello che Romanino aveva dipinto. Questo è facilmente dimostrabile nel caso dello "smaltino" (tecnica di stesura per azzurro a calce su intonaco quasi asciutto da eseguirsi in più strati) chiaramente giunto a noi solo nel primo strato. individuabile per il caratteristico colore grigiastro; sorte analoga ha subito la malachite, colore verde che solamente con certe precauzioni particolari può essere reso ad affresco per via della sua natura minerale e della insolubilità in acqua. La malachite è peraltro nel ciclo degli affreschi di Pisogne il colore più prezioso fra quelli presenti.
In alcuni casi si direbbe proprio che Romanino abbia utilizzato del tutto intenzionalmente la base di intonaco come colore. Altra particolarità degli affreschi di S. Maria della Neve sono i frequenti craquelure, fitte crepe superficiali che in genere si creano a causa della presenza di dosi incontrollate di calce nell' intonaco.
È molto chiaro come, a differenza dei dipinti di Tavernola, in quelli di Pisogne si incontri un Romanino pittoricamente più maturo. Non vi è più quel modo di rendere i volti con ombreggiature grafiche, ma una fluidità pittorica che da Francesco Paglia, critico seicentesco, viene definita "sprezzante" (nel senso di "disinvolta") per la particolare velocità d'esecuzione e la voluta noncuranza. Una noncuranza cui è da attribuire anche il curioso particolare constatabile nella parete di destra nella terza campata, dove è raffigurata la Salita al cielo, nella quale si trova il segno di un evidente pentimento sul quale il pittore non ha praticato il benche minimo tentativo di correzione: nella linea di mezzeria longitudinale, all'altezza delle mani della Vergine, c'è la traccia evidente di un paio di piedi abbozzati con il solito colore rossastro ma non colorati. Probabilmente da lì doveva partire un'altra figura, ritenuta poi inopportuna.
Non si può dire che Romanino abbia prestato più attenzione o maggior cura al registro basso, dove l'occhio attento può cogliere ogni particolare. La stesura dell'intonaco rimane grossolana, ma ciò che più stupisce sono quelle figure costrette nello spazio dei riquadri quasi senza respiro, con mani e piedi contornati, con forte contrasto, da un colore terra scura, a volte nero, eseguito con un pennello molto grosso, della stessa misura di quello utilizzato per le figure delle pareti superiori che sono però molto più grandi.
Su questi affreschi si trovano molte tracce di pasticca cerosa, base utilizzata per far aderire la foglia d'oro, posta a finimento di cavalli, manti e lance. Elemento che può sembrare in contrasto con il modo di dipingere romaniniano ma che sicuramente rientra a pieno titolo nel gusto manieristico del periodo.
Presbiterio di Breno Lungo la "via del Romanino" risalendo la Valle, si incontra la chiesa di S. Antonio a Breno. Romanino vi giunge nel 1536 e dipinge tre pareti del presbiterio con le storie di Davide.
Si sente una forte continuità tra queste opere e quelle di Pisogne, sia dal punto di vista pittorico che da quello tecnico, lo stesso gusto per la raffigurazione dei personaggi con una forte connotazione fisiognomica, quasi grottesca. La forza della figura è tale che le strutture architettoniche che scandiscono, intervallandole, le raffigurazioni, sembrano scomparire.
Purtroppo il primo registro in basso della parete di fondo ed alcune zone della parete a sinistra sono molto compromesse, così da rendere difficile l'interpretazione iconografica.
Le stesure delle giornate di intonaco sono, come a Tavernola e Pisogne, molto ampie. Analizzandole si intuisce che Romanino e il suo aiuto stendevano l'intonaco come risultava più comodo, seguendo la struttura a piani del ponteggio, non curandosi del fatto che per eseguire un buon affresco le giunte di giornata devono seguire il più possibile i contorni di figure ed architetture. Sono invece verificabili in questo caso scelte paradossali, come la giunta che taglia di netto le gambe dei personaggi ed il cane nella parete sinistra in basso, oppure la piccola scimmia, nella stessa parete in alto, che ha la testa dipinta sulla giornata superiore, che ormai carbonatata non ha conservato i colori.
La superficie dell'intonaco presenta molte microcadute dovute alla sabbia del fiume Oglio che, salendo verso la Valle, presenta una componente più accentuata di particelle minerali.
Come a Pisogne, anche in S. Antonio Romanino dipinge su di una base di affresco precedente. Ne è stata rinvenuta traccia al di sotto della pala di Callisto Piazza.
Le tracce di pasticca cerosa sono qui piccolissime e scarse, a differenza di Pisogne dove la finitura dorata doveva avere un impatto visivo di notevole entità. In S. Antonio è invece difficile stabilire se vi fosse una finitura d' oro.
Particolare del Presbiterio di Bienno Nel 1541 Romanino giunge a Bienno e, nella chiesa di S.Maria Annunciata, dipinge nel presbiterio tre pareti raffiguranti le storie della vita di Maria.
La parete di fondo è stata probabilmente snaturata nel Seicento dall'inserimento della pala, mentre lo Sposalizio della Vergine e la Presentazione al tempio sono chiaramente identificabili sulle due pareti laterali.
La continuità pittorica del ciclo sebino camuno si coglie anche qui, nonostante vi sia un contenimento espressivo delle forme, più pacate rispetto a Pisogne e Breno, e la presenza della struttura architettonica sia più forte e rigorosa.
Dal punto di vista della tecnica si ritrovano come sempre delle ampie stesure di intonaco che con noncuranza seguono le gibbosità dell' irregolare muro in pietra. Una particolare emozione si prova guardando da vicino e a luce radente questi intonaci, perchè oltre ad avere i segni del taglio di cazzuole e arnesi vari. come a Pisogne e Breno, presentano molte impronte lasciate con le mani o con le dita sull' intonaco fresco.
Gli intonaci, composti come gli altri dell' area camuna, presentano correzioni con granulosità diverse, le giunte di giornata sono molto visibili, c'è qualche piccolissima traccia di pasticca cerosa.
In alcune figure si trova una conservazione ottimale anche degli ultimi tocchi di pennello, forse perche l'artista ha in quest'opera ripreso quel modo descrittivo, quasi grafico, seguito a Tavernola, quei dettagli di finitura eseguiti con colore nero o rossiccio che disegnano trame di abiti, colletti, pellicce e ornamenti.
Nello sposalizio della Vergine il manto della Madonna ha perso lo strato finale di malachite, della quale si possono vedere i frammenti rimasti. Nella stessa parete, la giovinetta che regge i fiori conserva degli splendidi esempi di finiture eseguite con bianco di calce molto corposo. Le perline che decorano i capelli hanno uno spessore di alcuni millimetri e questo è un particolare inconsueto per un pittore come Romanino, che ci aveva abituati a colori tanto liquidi da lasciare spesso intravvedere l'intonaco. Altri particolari di finiture ben conservate sono, nella stessa parete, la figura seduta in basso a sinistra, così come, nella parete di fondo, l'abito giallo damascato e contornato da pelliccia della figura a destra nella pala.
È difficile stabilire se fosse d'uso consueto per Romanino dettagliare così minutamente le figure, e se Bienno rappresenti un caso di conservazione ottimale o rappresenti piuttosto la manifestazione di quella nuova forma di espressività cui Romanino si sarebbe rivolto a partire dal 1540.
Dal punto di vista dei colori utilizzati, anche a Bienno c'è una netta prevalenza di terre o comunque di colori non particolarmente preziosi ad eccezione della malachite. Questa rappresenta una costante nelle quattro opere del percorso romaniniano, accomunate su un altro piano dal fatto, rilevato dalle polizze d'estimo, che a Breno e Bienno, come a Pisogne, Romanino continuerà a vantare crediti per il lavoro svolto sino alla morte.

Silvia Conti

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